Solo le comunità locali, custodi di conoscenze preziose sugli ecosistemi, devono tenere le redini dei processi decisionali e non le autorità nazionali ed internazionali, oppure le filiere produttive dell’industria.
Includere la natura nel calcolo del pil, retribuire gli stati che tutelano gli ecosistemi. A proporlo è l’analisi sull’economia della biodiversità voluta dal governo britannico.
“La natura è la nostra casa. Una buona economia ci richiede di gestirla meglio”. Parola di Partha Dasgupta, professore emerito di economia all’università di Cambridge. A lui il dipartimento del Tesoro britannico ha affidato il compito di passare al vaglio la letteratura scientifica sull’economia della biodiversità. È la prima volta in cui un ministero delle Finanze assegna un incarico simile. Al termine di un anno e mezzo di lavoro, con il supporto di una commissione di 18 esperti, il risultato è la cosiddetta Dasgupta review. Più di 600 pagine, fitte di grafici, tabelle e riferimenti bibliografici, che giungono a una conclusione molto chiara: dobbiamo rivoluzionare il modo in cui pensiamo, agiamo e misuriamo il successo economico, a beneficio della natura e della nostra stessa prosperità. E dobbiamo farlo in fretta, prima che sia troppo tardi.
Non esiste prosperità economica senza un equilibrio con la natura
“Una crescita economica davvero sostenibile significa riconoscere che la nostra prosperità nel lungo termine fa perno sulla capacità di trovare un equilibrio tra la nostra domanda di beni e servizi naturali e la capacità da parte della natura di offrirli. Significa anche tener pienamente conto di qualsiasi impatto derivante dalle nostre interazioni con la natura, a ogni livello della società. La Covid-19 ci ha mostrato cosa può accadere quando non lo facciamo”, dichiara Partha Dasgupta tramite una nota.
Era giunto a conclusioni simili la Piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e gli ecosistemi (Ipbes), organismo intergovernativo indipendente accreditato dalle Nazioni Unite. Nel suo Global assessment pubblicato nel 2019 aveva infatti messo nero su bianco che “la biosfera, da cui dipende l’umanità nel suo insieme, subisce alterazioni di dimensioni inaudite”. E “il declino della biodiversità procede a ritmi più rapidi di quelli raggiunti in qualsiasi altra epoca della storia umana”. Qualche esempio? La degradazione del suolo ha ridotto la produttività del 23 per cento dei terreni. La scomparsa degli insetti impollinatori, compromettendo la produzione agricola, potrebbe tradursi in perdite monetarie annue comprese tra i 235 e i 577 miliardi di dollari. Circa un milione di specie animali e vegetali rischia l’estinzione.
Le proposte concrete per un’economia della biodiversità
Oltre a scattare una fotografia dell’allarmante situazione in cui ci troviamo, il report sull’economia della biodiversità suggerisce alcune soluzioni. Per soddisfare le esigenze di una popolazione globale in crescita senza forzare i limiti del nostro Pianeta, innanzitutto, bisogna tutelare il capitale naturale – per esempio stabilendo altre aree protette o investendo nelle cosiddette nature-based solutions, soluzioni basate sulla natura – e cercare di riparare i danni fatti finora. “Nell’ambito dei pacchetti di stimoli fiscali a seguito della Covid-19, gli investimenti nel capitale naturale hanno il potenziale per assicurare un ritorno in tempi rapidi”, si legge nello studio.
La sfida della Scozia: investire oltre un miliardo di euro nel capitale naturale
L’analisi entra anche nel merito di una questione ampiamente dibattuta: qual è la metrica più affidabile per misurare la crescita economica? Il pil è utile, sostiene lo studio, ma troppo lacunoso. Se gli stati vogliono dotarsi degli strumenti giusti per delineare le proprie politiche economiche, devono introdurre anche le risorse della natura nei loro sistemi contabili. Infine bisogna ricucire una frattura. Quella per cui le comunità locali custodiscono conoscenze preziose sugli ecosistemi, ma a tenere le redini dei processi decisionali sono le autorità nazionali e internazionali, oppure le filiere produttive dell’industria. Quando gli ecosistemi sono entro i confini nazionali, come nel caso delle foreste tropicali, gli stati devono essere retribuiti perché li custodiscono per il bene di tutti. Quando invece ricadono in zone extraterritoriali, come nel caso degli oceani, bisogna imporre tariffe per il loro sfruttamento commerciale (che va proibito nelle zone troppo delicate a livello ambientale). Cambiamenti rilevanti, sottolinea lo studio, che diventano possibili solo se alla base c’è un profondo ripensamento del nostro sistema educativo e finanziario.
Fonte: lifegate.it