Se la maggior parte dei paesi ha abbassato la testa nei confronti delle pretese e delle negoziazioni della Monsanto, una notizia in controtendenza arriva dall’India: anche qui l’azienda agrochimica si è imposta prepotentemente nel settore della coltivazione del cotone. In particolare ha costretto la quasi totalità degli agricoltori a piantare semi di BT Cotton, semi geneticamente modificati che ovviamente vanno coltivati esclusivamente con prodotti Monsanto. Per poter acquistare le sementi i contadini hanno contratto debiti inestinguibili portando molti di loro a suicidarsi.
Da qualche anno però sta prendendo sempre più piede un’iniziativa coraggiosa: gli agricoltori si sono rifiutati di continuare a coltivare il cotone BT e sono tornati a quello autoctono, infliggendo alla multinazionale una perdita del 15%.
I contadini indiani sono tornati ad impiegare i semi autoctoni al posto di quelli venduti a prezzi elevatissimi della Monsanto.
I contadini che si sono suicidati, tra il 1995 e il 2013, ammontano a 300.000: non hanno avuto altra scelta davanti al debito nei confronti dell’azienda che cresceva di giorno in giorno e vedendo minacciato l’unico bene di proprietà, la terra coltivata. Molti hanno deciso di porre fine alla loro vita bevendo gli stessi prodotti chimici che la Monsanto costringeva ad usare per la coltivazione del cotone BT.
Il cotone BT è classificato come un seme geneticamente modificato contente un batterio che produce tossine nei confronti di insetti che attaccano il cotone. Tuttavia i semi si sono dimostrati altamente resistenti ai prodotti fertilizzanti ed erbicidi tradizionali, così la Monsanto proponeva ai contadini gli unici prodotti in grado di far crescere il cotone.
Davanti ad uno scenario di morte e di decrescita economica, il governo indiano è stato il primo a prendere provvedimenti nei confronti della Monsanto, che solo con escamotage era riuscita ad inserirsi nel mercato indiano e ad ottenere il monopolio sui semi di cotone. L’amministrazione ha iniziato a promuovere l’uso di sementi originarie dell’India che, secondo alcuni studi, offrivano anche un cotone di gran lunga più resistente e di qualità superiore rispetto a quello geneticamente modificato.
Ad oggi una perdita del 15% sembra essere una sciocchezza per un’azienda che fattura miliardi in tutto il mondo: ma come afferma Keshav Raj Kranthi, il direttore dell’Istituto di Ricerca Indiano sul Cotone, “Aspettate quei 3 o 4 anni cruciali, e vedrete un completo dietrofront”.