” SIAMO UNO DEI PAESI PIU’ RICCHI D’EUROPA MA NON CE NE RENDIAMO CONTO ”
IL CAPITALE naturale, ovvero l’insieme degli ecosistemi, produce annualmente una grande quantità di benefici. Prendendo in considerazione solo le risorse idriche, la prevenzione dalle alluvioni, l’impollinazione agricola e le attività ricreative il suo valore supera i 240 miliardi di euro: è la stima economica dei beni e servizi ecosistemici elaborata nel Terzo rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, a cura del ministero dell’Ambiente. Nello specifico, per capitale naturale si intende lo stock costituito dal totale degli ecosistemi, dal quale si generano servizi, come il flusso di acqua o il sistema di prevenzione dalle alluvioni. La popolazione delle api, ad esempio, rappresenta lo stock mentre l’impollinazione è il servizio erogato.
Al di là di questo enorme valore economico, però, il legame tra lo stato di salute, vitalità e resilienza dei sistemi naturali e il benessere umano è un elemento ormai acquisito dalla comunità scientifica internazionale. Già nel 1997 l’economista Robert Costanza e un gruppo di ricercatori pubblicò per la prima volta una stima del valore delle risorse della Terra che risultò essere quasi doppia al pil mondiale. La difficoltà di una simile misurazione gli valse all’epoca accese critiche da parte dei colleghi ma inaugurò una nuova concezione della ricchezza prodotta dalla natura a sostegno della vita umana.
Sulle orme degli studi di Costanza, in linea con gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 firmata dall’Italia e dai Paesi delle Nazioni Unite nel 2015, il Rapporto sul capitale naturale presenta un aggiornamento sulle risorse naturali del Paese e offre una valutazione delle politiche pubbliche attuate in passato e una previsione degli effetti di quelle pianificate per il futuro.
Ne emerge la fotografia di un Paese con un grande potenziale e con alcune tendenze decisamente positive, come la crescita delle zone boschive nelle aree interne. Un elemento senz’altro favorevole, calcolando che le foreste coprono un territorio di circa 11 milioni di ettari, più del 30% della superficie nazionale, se non fosse che questo incremento è riconducibile principalmente all’abbandono delle zone montane e collinari. “A causa di queste migrazioni i boschi non sono più sotto controllo”, spiega Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente. “Affinché invece siano in buona salute e possano svolgere la loro funzione di mantenimento degli ecosistemi e assorbimento dell’emissioni inquinanti, devono essere regolati e gestiti in maniera sostenibile, ecologicamente appropriata, e allo stesso tempo orientata a benefici sociali ed economici“.
“Il grande rischio è che, mentre nelle aree interne abbandonate crescono folte vegetazioni”, prosegue Zanchini, “le vaste pianure che accolgono nuovi flussi di popolazione divengano sempre più inquinate e sovrasfruttate, come avviene nella Pianura Padana, o nelle pianure che comprendono Napoli, Roma e Palermo”.
Una speciale attenzione è riservata alla biodiversità, di cui l’Italia è particolarmente ricca, e all’analisi delle strategie per invertire una tendenza che nel mondo vede ben un milione di specie a rischio estinzione, come denunciato a maggio dall’Ipbes, Intergovernamental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, ovvero il gruppo di esperti in materia, sotto l’egida Onu.
In Italia grandi responsabili di questo fenomeno sono il consumo di suolo che, sebbene non sia più ai livelli del boom edilizio degli Anni 60′, continua a distruggere delicati habitat, la cui tutela sarebbe la prima soluzione per salvare la varietà di flora e fauna. Numerosi inoltre i sussidi pubblici individuati che favoriscono comportamenti e modelli dannosi per l’ambiente. Ne sono un esempio gli sconti sui carburanti, primo tra tutti il diesel, tassato meno della benzina, e le agevolazioni sull’utilizzo dei combustibili fossili in agricoltura e negli autotrasportatori o per fertilizzanti e pesticidi nocivi.
Sulla perdita della biodiversità pesa molto anche il cambiamento climatico, al quale vengono associate conseguenze e connessioni su più piani, dalla desertificazione di intere regioni nel Sud Italia al mutamento degli ecosistemi alpini, senza tralasciare la frequenza e l’intensità degli eventi climatici estremi. Per questo, secondo il Rapporto, il sistema ambientale italiano è obbligato, sotto la spinta di queste nuove emergenze, a elaborare una strategia di adattamento e di prevenzione alle nuove problematiche globali, con una gestione del rischio idrogeologico anche attraverso un’oculata tutela del patrimonio naturale.
“Il merito di questo studio”, puntualizza Federico Pulselli, docente di Chimica dell’ambiente e dei beni culturali all’Università di Siena, “è che esplicita l’esigenza dello Stato di avere una contabilità sistematica, una modellizzazione della stima del capitale naturale e dei servizi che esso rende. Questo è sempre più importante perché quanto più l’amministrazione centrale si rende conto dell’enorme patrimonio, tanto più riesce a trasmetterlo ai cittadini, con maggiori probabilità in futuro di vederlo preservato, sia da parte dei privati che del pubblico”.
(credits: Repubblica.it)